La memoria contiene il nostro vissuto, definisce ciò che siamo. A volte è sufficiente un’immagine, un profumo, il brano d’una canzone per riportarci indietro nel tempo. In altre lo facciamo di proposito. Ripensando a quel no che pronunciammo. A quel bivio ideale dove malauguratamente prendemmo la destra anziché la mancina. A noi sembra giusto e corretto ragionare sugli sbagli commessi, sulle conseguenze che non abbiamo saputo prevedere. Specie se hanno influenzato la vita successiva. Prendiamo dolorosamente atto d’aver sbagliato. E ci sentiamo colpevoli. Perché avremmo dovuto fare di più e di meglio. Siamo tormentati dal dispiacere, dal rimorso, dalla rabbia. E non di rado queste emozioni diventano tanto persistenti da tramutarsi in un vero e cronico malessere ed avvelenare il nostro quotidiano. Dov’è l’errore?
Semplice. Ci stiamo comportando come fossimo degli esseri statici, a chiusura stagna. Al pari di quegli insetti cristallizzati nell’ambra e venduti come souvenir. Disconoscendo che la nostra esistenza, al contrario, è in graduale e permanente evoluzione. È nel tempo che incrementiamo le nozioni e le esperienze, perfezioniamo le abilità, affiniamo le capacità d’analisi e giudizio. Noi umani, dopo ogni istante che viviamo, non siamo più quelli di prima. Per cui, quando ci addentriamo nel passato, dovremmo ricordarci che, mentre compivamo le scelte di cui c’affliggiamo, non avevamo le informazioni e le competenze di cui disponiamo nel presente. Certo, oggi opereremmo scelte diverse. Proprio perché intanto abbiamo imparato. Per tentativi e fallimenti. Ma se con una macchina del tempo potessimo ritornare ad allora, rifaremmo le medesime. Perché eravamo in piena consapevolezza e buona fede. Ed erano quelle di allora, non quelle di oggi, le informazioni e le competenze di cui disponevamo. Per logica, quindi, ne consegue che il passato dovremmo osservarlo da interessati spettatori, mai da giudici! Per avere l’opportunità d’apprendere dai nostri sbagli piuttosto che incolparci e tormentarci d’averli commessi.
